la solitudine dell’economista

federico caffè

Federico Caffè

Non ricordo quali siano i libri che mi hanno commosso di più. Sono certa che alcune pagine mi hanno fatto piangere, sia pure sommessamente, e sono certa di aver citato alcune pagine a qualcuno o a me stessa in momenti in cui le lacrime scendevano copiose per altre ragioni.

Ma il libro che ho finito di leggere da qualche settimana mi ha commosso più di una volta, e del tutto inaspettatamente.

E’ un romanzo, un saggio, un’appassionata inchiesta giornalistica, ma soprattutto è il ritratto di un uomo fuori dal comune. E’ L’ultima lezione, il libro di Ermanno Rea dedicato alla solitudine di Federico Caffè, economista “scomparso e mai ritrovato”.

Ermanno Rea, che non ha conosciuto Federico Caffè, ha raccolto i ricordi di chi lo conosceva: i suoi famigliari, gli amici, i colleghi, gli studenti, e tutti coloro che ebbero con lui un legame di qualunque genere, e ha ricostruito l’immagine di un uomo certamente non facile, ma intenso, capace di dare agli altri senza risparmiarsi e completamente assorbito dalla propria vocazione di intellettuale e di docente universitario. E proprio il dipanarsi di tanti sentimenti nei ricordi delle persone che Rea ha intervistato è uno dei tratti più emozionanti del libro, che ha catturato con forza lo stesso autore, e che ha impedito che la figura di Caffè risultasse un santino troppo oleografico o stilizzato.

Il 15 aprile 1987 Federico Caffè uscì di casa per l’ultima volta, dopo aver deposto su un tavolino i suoi occhiali, l’orologio, le chiavi di casa, il passaporto e il libretto degli assegni.
La sua scomparsa sconvolse quanti gli erano vicini, che lo cercarono accanitamente per mesi e che continuarono a interrogarsi e a confrontarsi a lungo sulle motivazioni di quel gesto e sulla sorte di Caffè.

Rea, inevitabilmente chiamato a confrontarsi con il mistero irrisolto di questa scomparsa e con le suggestioni e il fascino che lo accompagnano (ad esempio le analogie con la sparizione del fisico Ettore Majorana, a sua volta oggetto di indagine da parte di Leonardo Sciascia), cerca di rintracciare e spiegare i sentimenti, le idee, le preoccupazioni e i dolori che segnarono gli ultimi anni di Caffè. A partire proprio dall’ultima lezione tenuta dal professore nella facoltà di Economia e Commercio della Sapienza, prima di essere collocato fuori ruolo per raggiunto limite d’età.

L’essere costretto ad abbandonare l’insegnamento attivo, e soprattutto il suo ruolo di maestro e di “padre” per i ragazzi era stato per Caffè un grande dolore. L’università, la ricerca, il confronto quotidiano con gli studenti erano sicuramente le sue ragioni di vita; ma c’erano anche in lui una profonda disillusione e amarezza per la sconfitta delle idee che aveva difeso e trasmesso per tutta la vita: solidarietà sociale, miglioramento reale delle condizioni di vita della gente, senso dello Stato.

Estimatore di J.M. Keynes e convinto riformista, Caffè era un intellettuale problematico, eterodosso, forse un po’ disubbidiente e molto scomodo.
Da giovane, nel dopoguerra, aveva assistito alla conquista dell’Italia da parte della Democrazia cristiana, ovvero al ritorno al potere delle forze politiche economiche e sociali che avevano sostenuto il fascismo, e al fallimento della “rivoluzione democratica”  auspicata dal Partito d’Azione con cui collaborava.
In seguito, nell’amato ruolo di docente universitario, aveva continuato a svolgere la sua funzione di critico nei confronti del liberismo all’italiana, in cui lo Stato interviene solo per salvare le grandi aziende incapaci di sopravvivere da sole sul mercato. Promotore di un welfare state autentico,  senza sprechi e assistenzialismi inutili, credeva che la piena occupazione fosse un obiettivo essenziale, perchè il lavoro è dignità.

Ma soprattutto Federico Caffè credeva nello Stato, inteso come passione civile collettiva, ricerca e cultura del bene pubblico. In un’Italia da sempre funestata dall’individualismo e attraversata negli anni Ottanta dai venti dello yuppismo e della deregulation, la voce di Caffè,  che chiedeva senso civico e assunzioni di responsabilità individuali e collettive, intervento dello Stato nell’economia e regolamentazione e limitazioni del sistema capitalistico, rimase inascoltata.

Mi ha davvero commosso la forza di un uomo che credeva profondamente nella giustizia sociale e che si è speso per cercare di costruirla, coltivando il dubbio, la ricerca, il pensiero critico e il confronto con le generazioni più giovani, in un paese sempre più sordo ed egoista, sempre più incapace di cambiare strada.

Federico Caffè si definì “economista passionate“, ma a giudicare dal ritratto di Ermanno Rea lo definirei anche “economista umanista”, erede della grande tradizione culturale italiana che pone l’uomo, le sue esigenze e i suoi diritti, al centro della scienza.

E. Rea, L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato, Einaudi, 290 p., 13.80 euro

“Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi. Esiste una evidente incoerenza tra i condizionamenti di ogni genere che vincolano l’attività produttiva reale dei vari settori agricoli industriali, di intermediazione commerciale e la concreta licenza di espropriare l’altrui risparmio che esiste per i mercati finanziari.”

(F. Caffè, dal Giornale degli economisti, 1971; citato in Marcello De Cecco, Roberta Carlini, “Alla radice della crisi”, il manifesto, 5 dicembre 2008)

“Ogni restaurazione reca in sé i germi dell’oltranzismo intollerante.”

F. Caffè