chiamatemi Ismaele

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. E’ un modo che io ho di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione.

Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c’è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano.

H. Melville, Moby Dick o la Balena, traduzione di Cesare Pavese, Adelphi, 588 p., 13 euro

Dopo aver scherzato con Melville volevo citare per intero uno degli incipit più sfolgoranti della letteratura mondiale di tutti i tempi, nella splendida traduzione di Cesare Pavese.

Nella sua prefazione Pavese rende omaggio all’ infelicità che spinse Melville a scrivere il suo capolavoro. Anch’io, di umore grevio più che mai negli ultimi tempi, rendo omaggio a Ismaele, che per curare i malanni della sua anima non esitò a mettersi in mare.