molto forte, incredibilmente vicino

Philippe Petit cammina su una fune sospesa tra le Twin Towers

Mai titolo fu più azzeccato per me. Molto forte, incredibilmente vicino, è così che ho sentito il romanzo di Jonathan Safran Foer.
Ed è la prima volta che mi capita di apprezzare un autore che appartiene alla mia generazione, Safran Foer è nato nel 1977, e di percepire sotto sotto qualcosa che ci accomuna anche in virtù delle esperienze e dell’immaginario.

Mi sembra di aver incontrato questo libro al momento giusto, e penso di non essere stata l’unica a cui è successo. Forse credo davvero nella serendipity, nella bontà degli sconosciuti e nelle bussole interiori che ti riportano sempre a casa.

Oskar è un bambino di nove anni vivace e molto intelligente. Il suo papà muore l’11 settembre 2001 in una delle Torri Gemelle. Dal giorno della morte del padre Oskar si fa dei lividi, inizia a dire bugie e a fare invenzioni.
Prima non faceva queste cose, perché un papà ti calma il cervello, e se la sera ti rimbocca le coperte e ti racconta una storia non hai certamente bisogno di inventare il laghetto delle lacrime a Central Park.
L’innocenza e il candore di Oskar, voce narrante della storia, svelano i meccanismi involontari dell’elaborazione del lutto e ci mostrano come la morte di un genitore ci faccia immancabilmente tornare bambini. Indifesi, spaventati, impegnati caparbiamente a cercare un senso, un messaggio.

La maggior parte dei personaggi del libro sono alle prese con il senso di vuoto, angoscia e abbandono della perdita di una persona amata. Può essere un padre, un figlio, un marito, una moglie, una fidanzata.
Non tutti riescono ad affrontarli con lo stesso coraggio di Oskar o con la forza e l’amore della mamma di Oskar.
A volte il dolore di una perdita stravolge talmente le persone da impedirgli di continuare a vivere la propria vita. Perché «non ci si può difendere dalla tristezza senza difendersi dalla felicità».
Questo è quello che capita al nonno di Oskar, altra voce narrante del libro.

C’è una certa simmetria nelle storie di Oskar e di suo nonno, perché entrambi perdono le persone amate in modo non naturale, quindi ancora più difficile da affrontare. Oskar perde il padre in un brutale attentato terroristico, il nonno di Oskar perde i suoi cari in uno dei bombardamenti peggiori della seconda guerra mondiale.

Ho sempre pensato che la mia generazione (che è anche quella di Safran Foer) abbia stabilito un legame particolare con quella dei nostri nonni e sia stata più disposta a comprenderla rispetto ai loro figli, i nostri genitori.

Il romanzo mutua la tecnica cinematografica del montaggio, assimilando materiali diversi dalla scrittura e usando reiterazioni, flashback e flashforward. Ho particolarmente amato il fatto che l’autore abbia inserito delle foto e delle parti grafiche che spezzano la normale uniformità della scrittura. Belle e molto toccanti le immagini che costituiscono il finale del libro.

Benché l’11 settembre sia affrontato da un punto di vista strettamente personale, è innegabile che Molto forte, incredibilmente vicino sia anche un romanzo sull’attentato terroristico che ha sconvolto gli americani, distruggendo le loro certezze.
Ovviamente il lettore è portato a riflettere sulla sorte delle persone che erano all’interno delle Torri o sugli aeroplani, a immaginare i modi in cui hanno affrontato la morte, attesa senza possibilità di salvezza, e hanno cercato di comunicare per l’ultima volta con i propri cari.
Ma è soprattutto la ricerca di Oskar di qualcosa che possa fargli comprendere meglio suo padre, e che gli permette di incontrare tante persone diverse, a raccontare come i new yorkesi hanno reagito al trauma. A mostrare al lettore che persone sono e quali sentimenti hanno condiviso, o rimosso, mentre la vita inesorabilmente andava avanti.

Consiglio a tutti Molto forte, incredibilmente vicino, ma soprattutto a chi è in un momento difficile o sta vivendo un lutto.

J. Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino, Guanda, 351 p., 18 euro

immenso 2666

I quattro abitanti del Messico

Leggere 2666 di Roberto Bolaño è come prendersi l’influenza: passare dalle poche linee di febbre iniziali al febbrone che fa sudare, fa dolere le ossa e confonde il cervello.
Oppure è come prendersi una sbronza con la tequila, sentire all’inizio solo il suo sapore sapido che gratta la gola e ritrovarsi dopo qualche bicchiere con la mente leggera e le gambe molli.
E’ anche una sbronza triste o angosciante, o un corpo a corpo con il vivere e il suo male.

Cinque romanzi compongono questo super romanzo, nato per essere cinque parti di una storia e poi (e a me non è dispiaciuto) divenuto una storia in cinque parti e in un unico volume.
Non c’è una continuità evidente tra i romanzi, ma l’opera è attraversata da tematiche importanti e ricorrenti, dal riapparire di alcuni personaggi e da intrecci di microstorie.
Ogni romanzo comunque ha protagonisti diversi e una trama coerente in se stessa, anche se nessuno ha una conclusione netta, neppure l’ultimo.

2666 è un’opera mondo, ambientata nella sua totalità in molti paesi diversi e che copre un arco temporale che va dal 1918 al 1999, quasi tutto il Novecento.
E forse per questo allude nel titolo al secolo ventunesimo e al famigerato e diabolico 666. Come se gli orrori del secolo scorso: guerre mondiali, Shoah, alienazione, miseria e sfruttamento generati dal sistema economico e sociale ancora vigente, siano il preludio all’apocalisse futura.

L’arte è uno dei temi fondamentali del libro, così come la cultura, il conoscere ciò che ci circonda e l’amore per il sapere, tutti aspetti positivi e salvifici – ma non indolori – dello stare al mondo, che si incarnano in moltissimi personaggi. Il misterioso scrittore Benno von Arcimboldi, alla ricerca del quale si dedicano i quattro accademici europei protagonisti del primo romanzo. Il pittore inglese Edwin Johns lacerato dal conflitto tra arte, profitto e follia. Il filosofo Oscar Amalfitano e la sua folle moglie Lola persa dietro un sogno di amore e poesia. Il giornalista afroamericano Oscar Fate e il giornalista messicano Sergio Gonzalez Rodriguez che amano il proprio lavoro e si ritrovano a stretto contatto con la violenza e l’orrore più puri. Il giovane e idealista intellettuale ucraino Boris Ansky ispirazione per la vita del soldato Hans Reiter. L’editore Jacob Bubis che difende la letteratura e custodisce i buoni libri.
Ma a questi personaggi si contrappongono anche amare riflessioni sul rapporto tra arte e potere, tema caro a Bolaño, scrittore cileno testimone del golpe di Pinochet e vissuto per molti anni in Messico, paese di cui racconta la corruzione e l’ipocrisia della classe dirigente.

Gli ultimi due romanzi sono, a mio avviso, il cuore dell’opera.
Il quinto, La parte di Arcimboldi, è un originale Bildungsroman in cui confluiscono anche la storia più oscura del Novecento europeo, ovvero l’efficiente sterminio degli ebrei, e la dissoluzione dell’utopia socialista nel regime sovietico.
Il quarto, La parte dei delitti, è tra tutti il romanzo più interessante per tecnica letteraria e il più dolorosamente crudele.
E’ la storia completamente inventata, ma che riecheggia un’altra storia atrocemente vera, di una serie di delitti raccapricianti che rendono la città messicana di Santa Teresa “un’oasi di orrore in un deserto di noia”, secondo un’espressione di Charles Baudelaire scelta da Bolaño come epigrafe del suo romanzo di romanzi.

La storia vera è quella di Ciudad Juárez, nel nord del Messico, al confine con il Texas, città violentissima a causa del narcotraffico, che dal 1993 ha conosciuto un’ondata di violenze e delitti nei confronti di giovani donne, per descrivere la quale è stato opportunamente impiegato il termine femminicidio.
Usando il linguaggio burocratico delle indagini di polizia e dei referti del medico legale Bolaño narra una sequela interminabile di delitti, immaginando nome e vita delle vittime e fornendo il resoconto delle indagini su uno o più presunti serial killer di giovani donne. E nel farlo racconta anche la mentalità maschilista che conduce al femminicidio (esemplificata in due agghiaccianti pagine di barzellette contro le donne), la corruzione del sistema politico e giudiziario e della polizia, gli accordi tra narcotrafficanti e istituzioni.

Non si può non rimanere ammirati davanti alla vastità di 2666, alla ingegnosità di tutte le sue storie, alla capacità di Bolaño di tratteggiare personaggi diversissimi tra loro e mai banali, alla quantità di idee e fatti che compongono i romanzi, alla complessa descrizione delle molteplici forme del male nel mondo. Questa summa di storia, cultura e narrativa non è certo facile e non sempre è avvincente ma merita di essere considerata una pietra miliare della storia della letteratura.

R. Bolaño, 2666, Adelphi, 963 p., 23 euro

Un’interessante analisi di 2666 e soprattutto il racconto della genesi di La parte dei delitti si trova qui.

aspettando Houellebecq

Michel Houellebecq Foto di Mariusz Kubik

Sembra che l’evento letterario della stagione culturale autunno inverno 2010-2011 sia l’uscita del nuovo romanzo di Michel Houellebecq La carte et le territoire, a giudicare dal battage polemico che si è trascinato fin qui d’Oltralpe.

Il sempre controverso autore francese ha trovato un critico illustre nel suo collega Tahar Ben Jelloun che in un articolo pubblicato su “Repubblica” non gli risparmia niente: stigmatizza la sovrabbondanza di marchi (e forse marchette?) presenti nel libro, come se Houellebecq avesse avuto l’intenzione di ammannire ai suoi fedeli lettori dei consigli per gli acquisti, si proclama infastidito per i deliri di egocentrismo dell’autore che nel romanzo diventa personaggio (lo scrittore di successo Michel Houellebecq), per i suoi giudizi tranchants su mostri sacri come Picasso e Le Corbusier e disgustato per le sue chiacchiere inutili sulla condizione umana e sui bordelli tailandesi.

Accipicchia! Non ho letto il libro (ancora) ma tanto livore e tanta mancanza di umorismo mi rattristano un poco.
Anche perchè la letteratura mondiale è piena di scrittori che diventano personaggi, giudizi tranchants su mostri sacri e chiacchiere (più o meno inconcludenti) sulla condizione umana.

Forse, come chiosa divertita Giovanna Zucconi su “La Stampa”, è über-cool potersi vantare di aver letto un romanzo di Houellebecq in anteprima e poi prendersi “la briga e di certo il gusto” di stroncarlo.
Ma la vera “notizia” in tutta questa misera storia è quella data dal sito di informazione Slate.fr che prima si è preoccupato di mostrare come Houellebecq abbia copiato alcune descrizioni presenti in La carte et le territoire da Wikipedia, citando a confronto i passi del libro e i brani tratti dall’enciclopedia online, e poi si è preoccupato di smentire l’accusa di plagio con un articolo che minimizza quanto in precedenza scritto autoriducendosi a cinguettio di Twitter.

Niente da fare, Houellebecq lo si ama o lo si odia. Io sono nella categoria di chi lo ama. Non ho letto tutti i suoi libri perchè preferisco centellinarli (non sono molti d’altronde).

Posso dire di aver trovato Le particelle elementari una consapevole e intelligente rappresentazione del nostro tempo, fortemente segnata dalle fobie, dai dolori, dagli smarrimenti, dagli errori e dalle manie che tutti proviamo in alcuni momenti della nostra vita. Una condanna a riflettere sull’umanità contemporanea senza risparmio, con dei personaggi complessi, in cui non è sempre facile riconoscersi e che è difficile amare, ma per i quali spesso si prova tenerezza e dispiacere.

Di simile parere il bell’articolo sul sito di “Les Inrocks” che vede in La carte et le territoir l’opera della maturità artisica di Houellebecq, un testo «di una densità e una ricchezza impressionanti, (…) visione di un mondo distrutto dall’artificialità, dalla condanna a morte dell’autenticità (il territorio o il paesaggio) per meglio imitare, scimmiottandole, le convenzioni frutto della globalizzazione, dall’avvento del re denaro che tutto uccide al suo passaggio, anche gli scrittori, e il libro stesso è una prova che Michel Houellebecq rifiuta di diventare artificiale a sua volta».

Anche questa volta il caso Houellebecq c’è stato, io attendo il piacere di poter giudicare seriamente il libro.

gli ultimi giorni di Tolstoj

Lev Tolstoj

Più di 240 pagine sulla morte di Lev Nikolaevič Tolstoj e nemmeno un attimo di noia.
Tolstoj è morto di Vladimir Pozner, pubblicato nel 1935 e ora riscoperto e tradotto da Adelphi, è un piacevolissimo romanzo-documentario.
Come un bravo storico, davvero in grado di “far parlare le carte”, Pozner si serve di eterogeneo materiale d’epoca (in buona parte ancora inedito negli anni ’30) per ricostruire gli ultimi giorni di vita del grande scrittore russo.

L’ossatura del libro è costituita da telegrammi e dispacci, documenti in genere privi di charme, che diventano testimonianze vivide di fatti e sentimenti del tempo grazie all’intelligente selezione che ne fa l’autore, che li completa con spiegazioni perspicaci ed essenziali e li integra con articoli di giornale e stralci di lettere e diari della famiglia Tolstoj.
Lo stile è cinematografico, con un montaggio che non perde mai il ritmo, e la mano sapiente di Pozner sa quando è il caso di attenersi alla semplice narrazione degli eventi e quando indugiare su un filo di fumo, un’espressione corrucciata o smarrita, un pensiero nascosto che qualche svogliata parola o un’azione meccanica riescono a rivelare.

Questi i fatti: il grande vecchio sempre più in rotta con la moglie Sof’ja Andreevna decide di scappare dalla tenuta avita di Jasnaja Poljana insieme alla figlia Aleksandra e al collaboratore Vladimir Chertkov, però si sente male durante un viaggio in treno ed è costretto a fermarsi nella stazione di Astapovo, un minuscolo puntolino sulla carta geografica di tutte le Russie.

Mentre Tolstoj giace nella casetta che il capostazione di Astapovo mette immediatamente a disposizione del Maestro, intorno al suo letto di morte si scatena una sarabanda famigliare, politica e mediatica di ingenti proporzioni.
Una sarabanda scandita dal ticchettio ininterrotto del telegrafo, il più veloce strumento di comunicazione disponibile nel 1910.
I giornalisti che affluiscono rapidamente dai giornali e dalle agenzia di Mosca e San Pietroburgo o dai giornali di ambiziose cittadine di provincia, gli ufficiali incaricati di mantenere l’ordine pubblico, i monaci inviati per strappare al malato un pentimento in articulo mortis, gli stessi famigliari e amici dello scrittore e non pochi sconosciuti accorsi per partecipare all’evento, congestionerenno le linee del telegrafo e spenderanno in pochi giorni una fortuna per raccontare cosa succede nella modesta casa del capostazione di Astapovo.

Con ironia Pozner descrive gli sforzi per garantire la copertura mediatica della morte di Tolstoj, come un vero preludio del moderno star system con tanto di cineoperatore inviato dalla Francia dalla ditta Pathé Frères.
Con sarcasmo mette in risalto l’ottusità delle autorità politiche e l’ipocrisia delle gerarchie ecclesiastiche.
Con affettuosa partecipazione narra il dolore e la commozione delle persone vicine a Tolstoj e della gente comune che, pur non avendo letto i suoi libri, sa che lo scrittore sta dalla parte del popolo e gli rende omaggio con grande amore.

In questo dramma a Sof’ja Andreevna Tolstaja, compagna dello scrittore per quasi cinquant’anni, spetta la parte della moglie bisbetica, causa della fuga di un marito anziano e stanco di liti e discussioni. Un marito che le sarà impedito di rivedere fino alle ultime ore di agonia.

Citando il celeberrimo incipit di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo» e senza aggiungere sue osservazioni  ai brani di lettere e diari che riporta, Pozner cerca di decifrare la vita matrimoniale dei coniugi Tolstoj. Operazione che ha solleticato molti scrittori.

Io, per solidarietà femminile, cito la lettura di Doris Lessing che ha messo sotto accusa il Maestro, tacciandolo di essere un marito insopportabile.
Senz’altro Pozner cerca di mantenersi imparziale nella guerra tra i due, suggerendo al lettore l’idea che le incomprensioni tra Levocka e Sonja (i diminutivi affettuosi della coppia) fossero inevitabili a causa delle aspettative reciproche, frustrate nel corso degli anni. L’educazione e la cultura di Sof’ja e le sue preoccupazioni per i figli e per le contingenze della vita quotidiana erano davvero inconciliabili con la filosofia di vita che Tolstoj aveva maturato e che cercava non senza fatica e sofferenze di applicare concretamente.

Tolstoj è morto, e dunque viva Tolstoj. E a me non resta che mettermi a cercare in una libreria troppo disordinata l’edizione di Anna Karenina comprata da mia madre quando era ragazza e che io ho letto in troppo giovane età.

V. Pozner, Tolstoj è morto, Adelphi, 274 p., 18 euro

senza Saramago

José Saramago

Che dolore! Sapevo che il momento sarebbe arrivato prima o poi, e non pensavo che mi avrebbe toccato così tanto.

Agli occhi del mio collega che mi ha vista piangere per la morte di José Saramago  il mio dolore è parso incomprensibile, anche se rispettabile.

Difficile spiegare a un non lettore cosa si prova alla notizia della morte di uno scrittore che con le sue parole ha cambiato la tua vita.
Non solo per le emozioni, gli insegnamenti, le idee su cui riflettere e i mondi interi da abitare che ho trovato nei suoi romanzi. Ma perchè i libri di Saramago, come oggetti e come storie da raccontare hanno intrecciato e intessuto momenti belli e brutti della mia vita, sono stati pegni d’amore o d’amicizia, argomenti di infinite conversazioni, scoperte da condividere con persone vicine e meno vicine.

In una mattina assolata, ormai lontana, raccontare la storia dell’amore di Blimunda e Baltasar a una persona che mi stava per lasciare mi è servito a riconquistarla.
E mi ha commosso oggi scoprire, leggendo il necrologio del “Mundo”, che Memoriale del convento è stato anche l’inizio dell’amore tra Saramago e sua moglie Pilar, per lui indispensabile come l’acqua.

Il Vangelo secondo Gesù Cristo, che ho costretto mio padre a leggere, ha acceso in lui entusiasmo, curiosità e domande che l’hanno accompagnato fino alla fine della sua vita.

E mi piace ascoltare l’uomo che amo quando continua a interrogarsi sulle infinite possibilità inesplorate delle vicende di Cecità e di Saggio sulla lucidità.

Come hanno scritto Umberto Eco e Manuel Rivas, persino lo schizzinosissimo Harold Bloom ha detto di Saramago «il romanziere maggiormente dotato di talento ancora in vita… uno degli ultimi titani di un genere letterario in via di estinzione».
L’ho sempre pensata esattamente come Bloom.
Mi sembra che nel panorama letterario mondiale non ci sia davvero nessuno che affronta interrogativi così fondamentali e vitali per l’umanità usando lo strumento letterario del romanzo con la stessa forza espressiva e la stessa capacità di invenzione.

Forse Saramago è stato l’ultimo erede di Melville e Dostoevskij, di Tolstoj e Cervantes. Di tutti i grandi romanzieri che hanno davvero cambiato il loro tempo per come hanno saputo raccontarlo e definirlo.
Nonostante il riconoscimento del Nobel, spesso ho pensato che Saramago non sia stato ascoltato come avrebbe meritato.
Troppo poveri in spirito la nostra società e il nostro tempo per interrogarsi sul significato di Cecità o de La caverna e su quanto di rivoluzionario possa esserci in Saggio sulla lucidità.

Mi è capitato recentemente di vedere un’intervista di Serena Dandini a José Saramago, fatta in occasione dell’uscita in Italia del suo libro Il Quaderno, e un’affermazione dello scrittore mi ha colpito e rallegrato. “Più vecchio si diventa, più libero si diventa, più radicale si diventa”. Con buona pace di chi pensa che invecchiando si diventi saggi e si scenda a compromessi con la realtà che ci circonda. Saramago è stato un fulgido esempio di come il tempo non riesca a offuscare le idee per le quali si è vissuto e combattuto e di come sia possibile giorno dopo giorno riaffermare la propria libertà individuale.

Senza la sua coscienza critica, la sua voce ferma e la sua bella vecchiaia, più rivoluzionaria di tante giovinezze e così feconda per il lavoro letterario, mi sento oggi un po’ più sola e un po’ più smarrita nell’affrontare questo mondo e questo tempo.

Saramago era nato nel 1922, aveva l’età di mio nonno, ha vissuto praticamente tutto il “Secolo Breve” e ne è stato, sia dal punto di vista politico che da quello letterario, un figlio.
Con lui finisce una certa idea di romanzo che è stata sperimentata nel corso di tutto il Novecento con risultati spesso eccellenti. Spero davvero che la sua eredità venga raccolta nel secolo appena iniziato.