padri cannibali

Si sa che i figli tendono a ribellarsi contro i padri, ma poi, quando diventano a loro volta padri, negano, prima ancora di arrivare a combatterla, ogni forma di ribellione.
Sulla rimozione degli slanci della propria giovinezza da parte dei padri, e sulla spinta naturale dei figli verso la ribellione poggia il conflitto generazionale.

E’ un tema su cui si è scritto molto, fin dall’antichità, fin dal mito, e su cui è stato costruito il credo psicoanalitico fondante della nostra epoca: il complesso di Edipo.
Un aspetto non secondario della questione è l’odio dei padri verso i figli: Crono divora i suoi figli perchè nessuno di loro prenda il suo posto, Dedalo invita Icaro a volare un po’ più basso.

Ho riflettuto spesso sul conflitto della mia generazione con la generazione dei nostri padri, e di recente questo argomento è tornato alla mia attenzione grazie a Il maestro di Pietroburgo di J.M. Coetzee. Come ho già scritto, ho iniziato a leggere questo libro perchè mi incuriosiva l’idea che uno scrittore contemporaneo sfidasse un mostro sacro della letteratura mondiale, raccontandolo attraverso un episodio della sua vita.

Non era il Dostoevskij che mi aspettavo di incontrare, quello che ho immaginato attraverso le pagine dei suoi libri. Ogni lettore probabilmente si sente interprete e depositario dell’immagine esatta dello scrittore che ama e la custodisce gelosamente.

Coetzee comunque sa di cosa parla, e si muove in modo disinvolto tanto tra le idiosincrasie del suo Fëdor Michajlovic, quanto nel clima sociale e politico della Russia della seconda metà dell’Ottocento.
Il nodo centrale del libro è la riflessione sullo scontro generazionale tra padri e figli, sia sul piano sentimentale che su quello sociale, tema caro allo stesso Dostoevskij e argomento di dibattito nella Russia di quegli anni, anche in seguito alla  pubblicazione di Padri e figli di Ivan Turgenev, il romanzo che fece conoscere all’opinione pubblica la mentalità e le aspirazioni dei giovani russi.

Nel romanzo di Coetzee, Dostoevskij rientra a Pietroburgo dal suo volontario esilio in Germania in seguito alla morte di Pavel, il suo figliastro.
Nell’innaturale circostanza di un padre che piange suo figlio e che cerca in ogni modo di ritrovarlo attraverso le persone che il figlio frequentava e gli scritti che ha lasciato, il conflitto generazionale detona violentemente nell’animo di Dostoevskij.

Fëdor Michajlovic sa di essere vecchio e sente amaramente la mancanza del giovane che è stato. Per questo motivo invidia Pavel e la sua giovinezza che la morte ha reso eterna, ma allo stesso tempo si addolora quando scopre che suo figlio non gli risparmiava critiche e che si sentiva frustrato dal loro rapporto.
I grotteschi tentativi di Dostoevskij di sovrapporre la propria immagine a quella di Pavel gli attireranno l’antipatia e lo scherno di tutti i giovani presenti nel romanzo, giovani verso i quali prova il risentimento che avrebbe forse rivolto al figlio vivo,  ma privo del salvifico involucro dell’amore paterno.

Fëdor Michajlovic, che da giovane era stato mandato in Siberia per l’adesione agli ideali di un circolo rivoluzionario, non riesce a capire le idee dei giovani rivoluzionari “nichilisti” che si raccolgono intorno a Sergej Nečaev, anzi ne disprezza la violenza e l’estremismo, ma ne subisce il fascino, come si subisce il fascino di qualcosa che ci venga negato e precluso a causa dell’età e dell’esperienza.

E’ impossibile a questo punto non pensare che l’autore di Delitto e castigo, romanzo tanto amato dai giovani nichilisti, concluderà la propria parabola di scrittore con I fratelli Karamazov, il romanzo del parricidio, in cui il padre è un essere talmente odioso e abietto che ciascuno dei figli potrebbe avere dei buoni motivi per ucciderlo.

“Ci dovete uccidere, altrimenti non vi libererete mai di noi” diceva spesso mio padre riferendosi alla sua generazione. E in effetti sembra che in Italia al momento ci sia un aspro quanto paralizzante conflitto generazionale. Classe dirigente anziana, ascensore sociale bloccato, nessuna possibilità di carriera prima dei quaranta, figli bamboccioni che non arrivano alla fine del mese e rimangono da mammà.

La generazione dei nostri padri, quella che ha scoperto l’adolescenza, non riesce più ad abbandonarla, rincorrendo spesso comportamenti e canoni estetici propri dei figli, senza concedere niente sul piano della cessione del potere.

E noi figli? Non siamo rivoluzionari né parricidi. Non so spiegarmi perchè. Forse il potere non lo vogliamo davvero. E questa potrebbe essere una novità. Infondo Pasolini aveva stigmatizzato (cogliendo nel segno come sempre) gli studenti del ’68 perchè non rappresentavano nessun futuro diverso, ma una semplice lotta intestina alla classe borghese. Il normale tentativo dei figli di strappare il potere ai padri, per servirsene, e perpetuarlo così com’è.

J.M. Coetzee, Il maestro di Pietroburgo, Einaudi, 215 p., 1o.50 euro